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La scuola e l’autismo: un esempio di prevaricazione. Stampa E-mail

Sono la mamma di un bambino disabile, Mattia, di tre anni e mezzo, affetto da autismo infantile.
Il bambino è stato diagnosticato giusto un anno fa e noi genitori ci teniamo che ad una diagnosi precoce segua anche un trattamento precoce.

Noi siamo residenti a Ferno (comune nei pressi della Malpensa) e il bambino da settembre 2008 è seguito dal centro ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici) di Novara.

Perchè così lontano da casa nostra? Perchè nell’arco di molti chilometri è l’unico centro specifico che si occupi di trattamenti per l’Autismo. Sappiamo che di autismo non si guarisce, ma sappiamo anche che un trattamento precoce può dare grandi miglioramenti, come infatti ci sono stati per nostro figlio in quest’ultimo anno.

I trattamenti sono essenzialmente di tipo educativo e quindi la scuola non può esimersi dallo svolgere il suo ruolo in maniera adeguata anche con un bambino con una disabilità come quella di mio figlio.

Dal settembre 2008 Mattia ha frequentato la Scuola dell’Infanzia di Cascina Elisa di Samarate, facente parte dell’Istituto Comprensivo di Ferno (VA), dove la dirigente è Dina Paludetto.
Fin dal primo momento abbiamo capito che la scuola aveva preso sotto gamba il problema.
Avevamo portato la prima diagnosi funzionale personalmente alla dirigente già nel maggio 2008 (quando Mattia frequentava ancora il nido), avevamo avuto l’accertamento della Commissione nel giugno 2008 anch’essa prontamente consegnata. In entrambe si parlava di disabilità GRAVE con necessità per il bambino di essere seguito 1:1 da insegnante di sostegno e assistente alla persona per tutta la durata della sua permanenza a scuola.
Ma a fine giugno, quando al collegio docenti mio marito ha avvicinato l’insegnante di sostegno della scuola dell’Infanzia (eravamo entrambi docenti dell’Istituto) per chiederle se erano preparate ad accogliere Mattia a settembre, lei ha risposto che non sapeva niente del fatto che si sarebbero trovate a gestire un bambino autistico: avevano avuto una riunione con la preside pochi giorni prima e la dirigente non aveva nemmeno accennato al problema.

Nel settembre 2008 si sono avvicendati due maestri di sostegno, entrambi su nomina del dirigente; quando la prima è andata via nessuno ci ha avvisati che Mattia non aveva più quell’insegnante, lo abbiamo capito da soli perché non la vedevamo più e perché Mattia era più agitato del solito.
Il secondo insegnante di sostegno è rimasto fino alla fine dell’anno scolastico: a Mattia erano state assegnate dall’USP appena 12 ore e mezza di sostegno, anche se noi a gennaio 2008 avevamo iscritto il bambino per 40 ore settimanali. Abbiamo avuto un colloquio con la dirigente poco prima che iniziasse la frequenza di nostro figlio, l’8 settembre. La preside ci ha chiesto di modificare l’orario di frequenza del bambino, perché le ore a lui assegnate erano poche. Ci siamo mostrati disponibili in questo e così Mattia ha frequentato per tutto l’anno per appena 16 ore settimanali (dalle 9 alle 13 escluso il mercoledì, giornata in cui andava a Novara al mattino). Alle 12 ore di sostegno sono state aggiunte 4 ore di assistente comunale, assegnate al bambino solo e unicamente per il momento del pasto.

Faccio presente che sia io che mio marito lavoriamo (nella scuola), quindi siamo venuti incontro a questa richiesta di riduzione d’orario con non poche difficoltà.

A questo punto abbiamo cominciato a fare noi delle richieste, che ci sembravano del tutto legittime:
1.  Che gli insegnanti di Mattia parlassero il prima possibile con i suoi terapisti, per rendersi conto delle problematiche del bambino e per poter stilare un Progetto Educativo Individualizzato il più possibile coerente col trattamento educativo-comportamentale precoce che il bambino sta seguendo.
2.  Che gli insegnanti avessero dei colloqui frequenti con i genitori, i migliori conoscitori del bambino, soprattutto per sapere come affrontare le situazioni di crisi del piccolo.
Entrambe le cose ci sono state prontamente negate.

Gli insegnanti non potevano vedere i terapisti: il protocollo sulla disabilità dell’Istituto Comprensivo di FERNO, approvato in Collegio Docenti il 1° settembre 2008, al capitolo Rapporti con i servizi di neuropsichiatria recitaNon sono previsti incontri né per il rinnovo delle diagnosi, né per la firma della documentazione (PEI e PDF)(il che significa che c’è una legge, la 104, ma che un regolamento si permette di disattendere tale legge, e che la cosa è tollerata dall’Ufficio Scolastico Provinciale e dal Ministero della Pubblica Istruzione). Abbiamo fatto presente alla dirigente che il regolamento disattendeva la Legge, ma la dirigente si è mostrata irremovibile su questo punto: gli insegnanti non potevano andare a Novara. Ma – del resto – avendo lavorato anche noi come insegnanti in quell’istituto, sappiamo che la dirigente, di norma, non fa andare gli insegnanti nemmeno all’ASL di Gallarate. Il perché non lo abbiamo mai capito.

A questo punto, messi alle strette, abbiamo proposto alla Dirigente di finanziare personalmente – cioè a nostre spese – gli incontri dei terapisti di Mattia con gli insegnanti. Eravamo agli inizi di ottobre.

Dopo il primo colloquio con le maestre, agli inizi di settembre, durante il quale tutto si era svolto in maniera serena e collaborativa, non siamo riusciti più ad avere ulteriori colloqui fino agli inizi novembre. La nostra richiesta di far venire a scuola i terapisti giaceva sulla scrivania della dirigente e nessuno si degnava di risponderci. Gli appuntamenti presi con la dirigente venivano annullati al mattino stesso del giorno convenuto (questo è accaduto almeno tre volte) e senza una briciola di spiegazione. Lo stesso accadeva per i colloqui fissati con le maestre, soprattutto con l’insegnante di sostegno, assolutamente blindato dalle maestre (avevano paura che svelasse chissà cosa?).

Agli inizi di novembre – finalmente – siamo stati convocati dalle maestre di Mattia e dalla psicopedagogista della scuola. Ci siamo fiondati, fiduciosi che finalmente la situazione si fosse sbloccata e potessimo collaborare. In realtà le maestre volevano solo sottoporci il PEI già scritto per farcelo firmare. Ovviamente ci siamo rifiutati di firmare un PEI che era stato scritto senza interpellare i terapisti e noi genitori di Mattia.

Qui la dirigente Dina Paludetto ha dato il meglio di sé.

Ha convocato prima me, che purtroppo sono insegnante di scuola media nella scuola che lei dirige, per convincermi a firmarlo. Non l’ho firmato, dicendo che la legge parla chiaro e che la scuola non può scrivere, leggere e mettere in pratica (se pure ci riesce) un PEI precompilato fatto con le crocette o col copia/incolla, senza confrontarsi con nessuno degli interlocutori.

Allora la dirigente ha dato ordine ad altre persone presenti nella scuola di avvicinarmi per farmelo firmare.

Mi sono ulteriormente rifiutata.

Successivamente, la dirigente ha convocato me e mio marito nel suo studio, esordendo con queste parole:
Questa convocazione è per la firma del PEI: io adesso vi do il PEI e voi me lo firmate. Non potete rifiutarvi di firmarlo! Ci mancherebbe altro!

Al nostro ulteriore rifiuto si è aperta un’accesa discussione. Tra le varie cose mio marito le chiedeva come mai nell’istituto da lei diretto non fossero stati ancora istituiti i GLH d’istituto e i GLH operativi. Lei probabilmente non sapeva nemmeno cosa fossero, ma per sua sfortuna il papà di Mattia è, guarda un po’, insegnante di sostegno. A questa ulteriore richiesta, alla quale ha risposto urlando “Ma cosa volete di più, vi abbiamo anche dato un’educatrice che aiuta il bambino a mangiare!” ci ha cacciati letteralmente fuori dalla sua stanza.

Intanto, la nostra richiesta di formazione giaceva ancora sul suo tavolo. Eravamo ormai a dicembre.
La preside continuava a convocarmi con una scusa o con l’altra. In un altro colloquio tra me e lei le ho detto che avrei firmato il PEI solo quando i terapisti di Mattia fossero venuti a scuola – ripeto: a nostre spese in una scuola che riceve dai comuni decine di migliaia di euro per il diritto allo studio! – a parlare con le maestre. Lei si è imbestialita, ma ha funzionato.

Il 17 dicembre 08, dopo tre mesi dalla nostra richiesta, la pedagogista clinica dell’ANGSA di Novara è potuta entrare nella scuola, ha potuto incontrare finalmente le maestre e cominciare a parlar loro dei problemi di Mattia. Da allora ci sono stati altri quattro incontri tra i terapisti e le maestre, conclusisi nel mese di aprile.

Le maestre erano entusiaste degli operatori di Mattia: ci hanno detto che erano stati degli incontri utilissimi e che avevano davvero capito come comportarsi col bambino. Così, ci siamo abbastanza tranquillizzati.

Tra gennaio e aprile abbiamo avuto due colloqui con le maestre. Ci eravamo un po’ abituati alla scarsità e all’inutilità di questi incontri e perciò non chiedevamo di più: la situazione però sembrava più serena. L’insegnante di sostegno, al di fuori del proprio orario scolastico, mi ha chiesto di venire con me e Mattia un giorno a Novara per vedere il trattamento educativo dallo specchio unidirezionale.

Abbagliati da questi buoni auspici, alla fine di febbraio abbiamo rinnovato (purtroppo!) l’iscrizione del bambino in quella stessa scuola.

Pochi giorni dopo l’insegnante di sostegno ci ha chiesto la disponibilità a far parte del GLH d’istituto. La dirigente aveva deciso di istituire quello che mio marito le aveva chiesto quando ci aveva cacciati fuori in malo modo. Ma il suo intento era quello di istituire un GLH pro forma, assolutamente inutile, dove la componente genitori era stata scelta da lei – come si evince dalla delibera n° 143 del Consiglio d’Istituto – tra le persone che creavano meno problemi. Io ero tra i genitori scelti, solo perché lei mi considerava una sua “suddita” che non le sarebbe mai andata contro in una riunione pubblica. Nessun rappresentante della Neuropsichiatria Infantile era stato invitato a far parte di questo Gruppo di Lavoro sull’Handicap. Sapendo benissimo che questo non era regolamentare, la dirigente è passata alle presentazioni solo negli ultimi cinque minuti della riunione. Ho fatto presente che l’assenza di un rappresentante della Neuropsichiatria in una riunione sulla disabilità era molto grave. Lei mi ha liquidata dicendo che i rapporti con la neuropsichiatria erano tenuti dalla psicopedagogista, la quale ha annuito visibilmente imbarazzata.

A questo punto lei non vedeva l’ora di chiudere la riunione, le ho ancora fatto un’altra richiesta: al GLH d’istituto sarebbe seguita l’istituzione dei GLH operativi? Lei mi ha risposto: “I GLH operativi non esistono, sono contemplati dalla letteratura, ma la 104 non ne parla (sic!).” Poi – visivamente alterata –  si è alzata di scatto dicendo: “Professoressa, se poi dovessi istituire anche i GLH operativi dovrei solo impiccarmi. Ed adesso scusate, il tempo è scaduto, buonasera”. Inutile dire che gli altri genitori, i docenti di sostegno, la psicopedagogista, l’educatore della scuola media, gli assistenti sociali presenti non si sono permessi di fiatare durante l’intera riunione. Ad oggi – come componente del Gruppo – aspetto ancora di ricevere il verbale di quella riunione, svoltasi il 12/03/09.

Una delle insegnanti di Mattia, a maggio, è poi venuta (solo al sabato quando la scuola è chiusa: la dirigente non le avrebbe mai permesso altro) a Novara al Convegno sull’Autismo organizzato dall’ANGSA.

Subito dopo il Convegno, la neuropsichiatra dell’ANGSA ci ha comunicato l’opportunità di partecipare ad un importante progetto sulla diagnosi e il trattamento precoce dei disturbi della comunicazione. Il progetto si basa sul Modello Denver di Sally Rogers. Il modello Denver si basa sui seguenti principi:

a)     inserimento del bambino in relazioni sociali coordinate e interattive per la maggior parte delle ore di veglia, in modo da poter stabilire sia l’imitazione che una comunicazione simbolica e interpersonale affinchè possa avvenire la trasmissione di conoscenze ed esperienze sociali.
b)      insegnamento intensivo per “colmare” i deficit di apprendimento che derivano dalla passata incapacità di accedere al mondo della socializzazione, dovuta agli effetti dell’autismo.

I mezzi principali per raggiungere questi due obiettivi terapeutici comprendono l’insegnamento dell’imitazione, lo sviluppo della consapevolezza delle interazioni sociali e della reciprocità, l’insegnamento del potere della comunicazione, l’insegnamento di un sistema di comunicazione simbolica; il cercare di rendere il mondo delle interazioni sociali comprensibile come quello degli oggetti per portare il bambino nel ricco ambiente degli scambi sociali.

Si capisce bene che la scuola sarebbe la risorsa migliore dove poter sviluppare un progetto di questo tipo. L’adesione al progetto prevede infatti che vengano realizzati dei video in tutti gli ambiti di vita del bambino, soprattutto quello familiare e quello scolastico che sono i luoghi in cui il bambino passa più tempo. Inoltre tutte le persone che ruotano intorno al bambino (familiari, insegnanti e terapisti) dovrebbero seguire delle giornate intensive di formazione che si terranno tra il 28 settembre e il 2 ottobre 2009.

Non appena abbiamo illustrato questo progetto alle maestre nel colloquio conclusivo agli inizi di giugno, una delle due, quella che già era stata al Convegno di Novara, si è mostrata entusiasta ed ha dato la sua piena disponibilità sia a fare i video che ad andare al corso di formazione. Ma la psicopedagogista (che – tra le altre cose – ha formato le insegnanti sulle Tecniche di gestione del colloquio con i genitori) l’ha interrotta, dicendo che doveva essere interpellata la dirigente: non solo per la partecipazione degli insegnanti alle giornate di formazione, ma anche per i video.

Abbiamo risposto che sapevamo benissimo di dover fare una richiesta formale alla dirigente, ma che non ne avevamo avuto ancora il tempo perché noi stessi eravamo stati avvisati da pochi giorni.

E poi?

Poi c’è stata la festa di fine anno, dove Mattia praticamente è stato trattenuto dall’insegnante di sostegno ai margini del gruppo senza essere messo in grado di partecipare a nulla, nemmeno alle canzoncine (che a lui piacciono tantissimo). Qui ci siamo proprio arrabbiati e, di getto, il 15 giugno abbiamo scritto e consegnato brevi manu in segreteria una lettera per la dirigente, dove dicevamo quello che – secondo noi – non aveva funzionato durante l’anno scolastico e (soprattutto) chiedevamo la partecipazione del bambino al progetto.

La risposta è arrivata esattamente dopo 15 giorni: lapidaria e – casualmente – nella data giusta per non consentirci più di fare nulla: il 30 giugno. Cambiare scuola il 30 di giugno significa lasciare alla scuola di Ferno le ore di sostegno (che non spetterebbero alla scuola, ma al bambino, ma si tratta di mettere di mezzo gli avvocati e le carte bollate o di trovare un Dirigente nell’Ufficio Scolastico Provinciale sensibile al problema, ed entrambe le cose sono lunghe e difficili) e portare il bambino in un’altra scuola SENZA SOSTEGNO (la qual cosa non è certo possibile per un bambino autistico, per cui la scuola – semplicemente – non accetta il bambino, dicendo di avere già le classi piene e le liste di attesa).
Quella che segue è la risposta ricevuta dalla dirigente dell’I. C. di Ferno, Dina Paludetto:

In merito alla VS del 15 u.s. siamo a comunicarVi l’impossibilità a rispondere positivamente alle richieste avanzate.”

Argomentazioni? Motivazioni? Pare che non ne abbiamo diritto!

Rossella Sorrentino