1 agosto 2006
GIACOMO VIVANTI è laureato in Psicologia Evolutiva presso l'Università "La Bicocca" di Milano. A 27 anni ha al suo attivo una solida esperienza nel campo dell'autismo: è stato trainer per l'Opleidingscentrum Autisme diretto da Theo Peeters e si è ulteriormente formato presso il Child Study Center, Università di Yale (USA), sotto la guida di Ami Klin. Terminato il tirocinio presso il dipartimento di Neuropsichiatria Infantile dell'Ospedale "Le Scotte" di Siena, diretto da Michele Zappella svolge ora presso lo stesso, il dottorato in qualità di psicologo borsista.
Dr. Vivanti, Lei ha conosciuto l'autismo in famiglia crescendo con due fratelli gemelli autistici più giovani. C'è stato un momento in cui è stato difficile accettare questa situazione familiare e ha sentito il peso di dover maturare in fretta?
Credo che per accettare o non accettare una situazione bisogna prima comprenderla appieno, rendersi conto che le cose vanno in questo modo ma potrebbero andare diversamente. Ero piccolo quando i miei fratelli hanno iniziato a sviluppare i primi sintomi del disturbo, troppo piccolo per rendermi conto che in loro c'era qualcosa che non andava, che potevano essere diversi. E’ una consapevolezza che è emersa lentamente. Ma a quel punto la mia mente si era in qualche modo già predisposta alla situazione difficile. Si stava adattando. E' un luogo comune quello per cui gli eventi difficili siano traumatici per i bambini e non per gli adulti.
Credo che quando si è giovani adattarsi sia più facile. Quando siamo più piccoli siamo più aperti, più curiosi: è proprio quando crescendo cominciamo a difendere in tutti i modi la stabilità delle cose che abbiamo che diventiamo sempre meno capaci di adattarci, di riorganizzare la nostra vita pratica e mentale secondo le nuove esigenze e le nuove situazioni che si vengono a creare. Diventiamo molto più vulnerabili.
Non credo di essere "maturato" in fretta a causa dei miei fratelli, credo di essermi adattato alla loro presenza nella mia vita più facilmente proprio perché non ero adulto. E comunque non si ha scelta: la mente, quando funziona come dovrebbe, trova sempre le vie giuste, o le acrobazie giuste, per ricreare un nuovo equilibrio quando quelli vecchi sono messi in crisi. Successivamente, quando i gemelli erano già grandi, è seguita una riflessione cosciente sul loro ruolo nella mia vita, sul fatto che costituivano un'opportunità oltre che un ostacolo... e questa riflessione non era tanto il frutto di una precoce maturazione, ma era l'unica alterativa possibile cui può condurre una mente ancora sana. Qualsiasi altra alternativa non poteva che portarmi allo scoraggiamento e alla depressione, stati d'animo che mi hanno attratto solo per brevi periodi in adolescenza, ma cui in definitiva non mi è sembrato utile abbandonarmi.
Così non ha sentito la necessità di imboccare altre strade ma ha conseguito la laurea in Psicologia Evolutiva approfondendo le tematiche inerenti l'autismo. Sente che il merito di questo traguardo è Suo o sono stati in gamba anche i Suoi genitori a "proteggerla" da una possibile sovraesposizione?
Dal momento che i miei genitori hanno dovuto subire sulla loro pelle l'ignoranza e l'ottusità di alcuni indegni rappresentanti del mondo della psicologia, il loro amore per la psicologia e per gli psicologi non era poi così grande. In effetti anch'io sono cresciuto pensando che gli psicologi siano dei venditori di fumo responsabili di ingiustizie e sofferenze nella storia dell'autismo, quindi non mi sarei mai aspettato di scegliere questa professione.
Arrivato all'ultimo anno di liceo ho pensato che mi sarebbe piaciuto studiare qualcosa che c'entrasse con l'autismo, ma non è stata né una scelta pilotata dai miei genitori né una mia decisione sofferta e solenne. Semplicemente, volevo sfruttare qualcosa che già sapevo. E comunque non avevo nessun particolare interesse in nessuna facoltà universitaria, ed ero uscito dal liceo senza nessuna passione per nessuna materia.
Mi sono iscritto a Scienze Politiche, ho ritirato l'iscrizione e mi sono iscritto a Lingue Straniere, dove ho seguito qualche lezione e non ho dato neanche un esame. Per caso nel periodo in cui ero a Lingue sono finito in un'aula dove era in corso una lezione di Psicologia dello Sviluppo: ci ero andato per restituire una sciarpa ad una persona che avevo conosciuto da poco. Comunque mi sono fermato a seguire la lezione perché ero curioso, e perché mi piaceva lo stile del professore. Durante la lezione si parlava, mi sembra, di isolamento e chiusura nella depressione, e uno studente aveva fatto qualche intervento idiota sull'autismo. Allora sono intervenuto io facendo una sparata contro l'ignoranza nei confronti dell'autismo e contro la psicoanalisi, e il professore interrompendomi mi ha invitato ad andare a parlare alla cattedra e spiegare quello che sapevo sull'autismo. Alla fine della lezione il professore si è complimentato con me e mi ha chiesto di preparare una lezione sull'autismo per la settimana successiva.
Così ho dato la mia prima lezione universitaria prima di aver fatto il primo esame. Il professore si chiamava Dario Varin, e in seguito mi ha convinto ad iscrivermi a psicologia e ha accettato, cinque anni dopo, di seguire la tesi sull'autismo che ho scritto quando sono andato a Yale. Se in quell'aula al posto suo ci fosse stato un altro forse non avrei studiato psicologia. I miei genitori sono stati fondamentali nel non uccidere con un eccessivo entusiasmo la mia voglia di studiare psicologia e fare una tesi sull'autismo. Spesso succede così: l'idea di fare una cosa viene soffocata non dall'indifferenza di chi ci vuole bene, ma da un'insostenibile valanga di entusiasmo, che trasmette l'idea di essere diventati i responsabili della loro felicità e i depositari delle loro speranze. Un peso che non auguro a nessuno di dover sopportare.
Comunque, per concludere, ora che sono psicologo e conosco meglio la mia categoria professionale, i miei pregiudizi si sono trasformati in lucidi e ponderate valutazioni: alcuni di loro sono davvero pericolosi venditori di fumo ignoranti e ottusi. Non mi sbagliavo affatto. Per fortuna non sono tutti così, anche se non mi azzardo a definire la percentuale di quelli che si salvano...
L'esperienza formativa in Belgio e negli Stati Uniti non passa inosservata a chi guarda con speranza alle future generazioni di esperti italiani di autismo. Che cosa può dirci al riguardo?
Lo studio dell'autismo è come lo studio di qualsiasi altra disciplina: può essere portato avanti solo da chi si aggiorna. In Italia il clima culturale è sfavorevole alla ricerca e tende a promuovere l'appartenenza acritica alle posizioni dominanti di corporazioni che hanno a capo professionisti affezionati alle idee su cui sono formati in gioventù.
Questo clima che promuove l'adesione alle idee più stagnanti e scoraggia chi è fuori dal coro ha compromesso la preparazione, già a livello universitario, di chi si occupa di autismo ma anche di qualsiasi altro tema in psicologia. Tuttavia, non si pensi che gli Stati Uniti o il Belgio siano paesi dove non esistano problematiche dello stesso tipo: semplicemente c'è più tendenza da parte dei professionisti ad aggiornarsi sulle discipline di cui si occupano.
Dopo aver conosciuto realtà così all'avanguardia non c'è il rischio di tornare in Italia con la convinzione che da noi tutto sia da buttare e che siano necessarie strade alternative che pongono in secondo piano le istituzioni pubbliche?
Le realtà all'avanguardia che ho conosciuto erano accessibili solo a chi aveva molti, molti soldi. In Italia, una volta ogni tanto, è possibile sentire storie che negli Stati Uniti non si sentono mai: bambini con autismo figli di genitori con pochissimi mezzi che grazie al lavoro fatto a scuola si sono integrati nelle loro classi, vanno alle feste dei compagni di scuola e si divertono, trovano degli amici. Negli Stati Uniti e credo anche in Belgio, se sei autistico e povero, sei solo. Tuttavia il problema delle strade alternative è più serio in Italia che negli Stati Uniti, perché in Italia i genitori sono più vulnerabili alle "soluzioni miracolose", lanciate sul mercato della disperazione dai "piazzisti di metodi risolutivi" di quanto non lo siano i genitori americani. Questo avviene perché in Italia non esiste ancora una cultura condivisa sull'autismo. Molti genitori di bambini con autismo riportano ancora di essere stati colpevolizzati dai professionisti: sono i genitori più stressati, e la loro storia di rapporti con i professionisti ha connotati drammatici.
Il fatto che in Italia vi siano professionisti convinti che i genitori siano responsabili dell'handicap mentale del proprio figlio perché c'era scritto così sui libri che avevano studiato e perché così gli avevano insegnato non è solo un problema di mancato aggiornamento. L'ignoranza, di fronte ad una materia così delicata, è un processo attivo, più che un "non-sapere" è un "anti-sapere", e il perpetuarsi di questo tipo di ignoranza sorda e coriacea è il più grande ostacolo che può dividere genitori e professionisti. I piazzisti di metodi miracolosi non cadrebbero mai in errori così banali. Da venditori esperti, sanno come lusingare l'amore materno dei potenziali clienti, come valorizzare il legittimo desiderio di fare tutto il possibile per il loro bambino, e come usarlo per piazzare i propri prodotti.
Sanno essere comprensivi senza ferire l'orgoglio dei genitori, e sanno come fame degli adepti acritici, pronti per essere usati come propagandisti inattaccabili. Sanno come tenersi i clienti, e non congedano mai una famiglia senza averle prima fissato il prossimo appuntamento Se, con una piccola dose in più di umiltà, solo un pizzico di queste strategie psicologiche fosse preso in considerazione dal servizi più accreditati, forse il mercato delle terapie alternative non avrebbe ragione di esistere.
Da bravi venditori, i piazzisti di metodi alternativi sanno conquistare la fiducia dei genitori ascoltandoli e mostrandosi fiduciosi nelle loro capacità di analizzare i problemi del loro bambino e di contribuire attivamente ad aiutarlo. Sanno che per dare fiducia non occorre sfoggiare il rigore delle proprie conoscenze, ma mostrare un interessamento speciale dedicato esclusivamente a quel bambino. Sanno che per i genitori il loro è un bambino speciale, e non esitano a dimostrare un interessamento altrettanto speciale per ogni loro testimonianza.
Al contrario, molti professionisti dei servizi, anche i più corretti, anche i più competenti, che conoscono a menadito le classificazioni internazionali, i test diagnostici più attendibili e i testi più aggiornati, talvolta hanno un'esperienza approfondita solo di pochi casi, oppure ne hanno visti molti, ma troppo superficialmente, potendo dedicare ad ognuno non più di mezz'ora per non togliere tempo ad altri bambini. Se alla limitata esperienza si aggiunge l'incapacità di ascoltare, può succedere che non prestino fede alle testimonianze che non corrispondono alla loro idea di autismo. In tal caso i genitori hanno la sensazione che il professionista al quale si sono rivolti, ignori e contesti tutto ciò che non quadra: anziché cercare di capire il loro, unico, bambino, cerchi di adattare le caratteristiche del bambino ad una sua idea astratta dell'autismo. Così si sentono incompresi, non creduti o trattati da visionari. Perdono la fiducia, e ancora una volta cercano aiuto altrove.
I servizi pubblici, sanitari e scolastici, salvo poche "isole felici " non sono adeguatamente preparati e offrono davvero poco, ma d'altro canto le proposte di intervento nel privato sono economicamente molto dispendiose. E’ possibile aiutare nell'immediato i genitori che non dispongono di mezzi finanziari a non sentirsi tagliati fuori da interventi abilitativi anche precoci?
Dal punto di vista della qualità degli interventi abilitativi precoci mi sembra che la differenza tra pubblico e privato sia minima. Gli interventi abilitativi precoci così come sono concepiti in America sono comunque incompatibili con l'obbligo scolastico nella scuola normale previsto dalle normative italiane. Ai genitori con un figlio piccolo e con pochi mezzi finanziari augurerei in primo luogo di incontrare insegnanti competenti all'asilo e a scuola, motivati e disposti a seguire quelle indicazioni presentate in molti libri di ottimo livello che permettono agli operatori di fare qualcosa di buono subito, in attesa che la famiglia, magari con l'aiuto di altre più famiglie, trovi la strada giusta verso un servizio che faccia tutte le valutazioni appropriata e predisponga un adeguato programma individualizzato.
Negli Stati Uniti sussiste effettivamente il problema che i bambini più ricchi vanno in scuole migliori con insegnanti più preparati, mentre in Italia questo problema non si pone: la preparazione degli insegnanti di sostegno è inesistente, quindi la qualità del loro lavoro dipende totalmente dalla motivazione, dalla buona volontà e dall'iniziativa personale. Un bambino italiano povero ha la stessa probabilità di uno ricco di trovarsi in classe con un insegnante motivato. Diciamo che se un bambino autistico viene da una famiglia povera, gli conviene nascere in Italia, se è ricco negli Stati Uniti.
La diffusione dell'approccio psicoeducativo di tipo cognitivo-comportamentale, che più di altri ha dato evidenza di efficacia per la sindrome autistica, stenta a diffondersi in Italia. Il volontariato competente potrebbe fare molto in questo ambito. Che cosa ne pensa?
I volontari sono una risorsa ma anche un rischio, perché la loro azione è spesso svincolata da precisi accordi di lavoro e quindi difficilmente inquadrabile in una prospettiva di lavoro di rete basata sull'implementazione di un preciso programma con obiettivi, strategie, ruoli e tempi di attuazione predefiniti.
Tuttavia, considerando che in Italia i bambini che beneficiano di programmi come questi sono pochi e le famiglie devono arrangiarsi come possono, qualsiasi risorsa, dal volontario al vicino di casa al parroco, può rivelarsi preziosa. Spesso sono le persone più inaspettate a costruire i rapporti migliori con il bambino.
Un cardine, per certi versi rivoluzionario, dell'approccio Teacch è la valorizzazione del ruolo dei genitori. In che misura i genitori italiani di persone autistiche possono essere una risorsa per migliorare i servizi offerti ai loro figli?
Da questo punti di vista le cose migliorano, grazie al moltiplicarsi delle iniziative congiunte tra associazioni dei genitori (le cosiddette associazioni di "advocacy") e professionisti. Tuttavia i problemi non mancano. Una delle tante incomprensioni fra genitori e professionisti riguarda il significato e lo scopo delle associazioni di "advocacy", ovvero delle associazioni intese come partners sociali impegnati nella rappresentanza dei diritti e degli interessi della popolazione che rappresentano. Nel nostro paese esistono diversi fraintendimenti sulle associazioni di advocacy, che ne ostacolano la crescita e ne minano la credibilità.
Da una parte, alcuni professionisti considerano le associazioni come degli sponsor da coinvolgere per procurare fondi per i propri progetti, o per sostenere il loro servizio presso le pubbliche amministrazioni. Ruoli che in una società moderna sono rispettivamente anacronistici, di fronte alla professionalità specifica e agli investimenti finanziari richiesti per organizzare attività di raccolta fondi, o riduttivi, non essendo la creazione di un'isola felice la risposta alle necessità di tutte le persone che l'associazione rappresenta.
Secondo questo punto di vista, le associazioni che si battono per i diritti e gli interessi dei propri rappresentati non vengono viste come un interlocutore e una risorsa per rispondere al meglio alle necessità degli utenti, ma come una seccatura da aggirare. D'altra parte, molti genitori confondono le associazioni di "advocacy" con i prestatori di servizi, e si aspettano di trovarvi risposte sollecite e concrete alle proprie problematiche individuali, ignorando quanto sia difficile ottenere finanziamenti e accreditamenti pubblici per nuovi servizi. Oppure pensano alle associazioni come mamme onnipotenti in grado di risolvere i loro problemi. Se non trovano le risposte che si aspettano, le considerano superflue, e sentendosi sfruttati non sono disposti ad affrontare ulteriori sacrifici economici per pagare la pur esigua quota di iscrizione richiesta ai soci.
Molte importanti associazioni per l'autismo italiane aderiscono ad Autisme Europe e sono autorevolmente rappresentate al suo interno. Non crede che i tempi siano maturi per un coordinamento nazionale tra le associazioni dell'autismo, una sorta di governo di unità nazionale per affrontare le emergenze dei giorni nostri?
I tempi non sono ancora maturi perché siamo ancora lontani dal poter beneficiare di una cultura condivisa sull'autismo anche tra i genitori: i genitori sono ancora purtroppo eccessivamente vulnerabili alle sirene dei piazzisti di metodi screditati e anti-scientifici, che li trasformano in fanatici e li dividono in fazioni. Finché esisterà la tristissima "guerra" tra quelli che seguono il DAN!, quelli seguono la CF, quelli che seguono l'RDI e così via le risorse andranno disperse e il coordinamento sarà assai difficile. Tra l'altro, il fatto che ormai esistono più "metodi" per l'autismo che bambini autistici non fa altro che frammentare ulteriormente le risorse dei genitori. Il problema, è ancora una volta l'assenza di una cultura condivisa che possa vaccinare preventivamente il genitore dall'accettazione acritica di metodi basati su presupposti sbagliati.
Per molti studenti universitari che intendono continuare gli studi e percorrere un cammino di approfondimento nell'ambito dei disturbi pervasivi dello sviluppo, Lei è un esempio da imitare. Ha un messaggio di incoraggiamento per loro?
Più che un esempio da imitare, auguro a tutte le persone che vogliono occuparsi di questi temi di avere la stessa fortuna che ho avuto io nell'incontrare dei professionisti che abbiano la capacità e il desiderio di trasmettere le proprie conoscenze su un argomento così difficile e complesso. Mi hanno trasmesso l'umiltà di non basare il proprio lavoro su una serie di conoscenze immutabili ma di considerare sempre la possibilità di apprendere qualcosa di nuovo.
Questi professionisti esistono, e invito tutti gli studenti che vogliono capire l'autismo a cercarli e a seguirne l'insegnamento.
Segnaliamo che recentemente è stato pubblicato il libro di Giacomo Vivanti "Disturbi mentali e disabilità dello sviluppo dell’infanzia: il rapporto tra genitori e professionisti. Principi e strategie per costruire rapporti tra famiglie e operatori" - Vannini Editrice, 2006 (leggi la recensione)
tratto da http://www.angsaonlus.org/veneto/intervista_gv.html#libro_gv
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